Agli Agostiniani, il cinema sotto le stelle propone tre appuntamenti con The Greatest Showman di Michael Gracey, Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino e Una questione privata di Paolo e Vittorio Taviani.
Giovedì 26 luglio, alle ore 21,30 la rassegna cinematografica degli Agostiniani presenta il film di Michael Gracey “The Greatest Showman”. Hugh Jackman è nato, oltre che per interpretare Wolverine, per vestire i panni, e soprattutto il cappello a cilindro, di P.T. Barnum. È lui l’anima di The Greatest Showman, un’anima energica e pop nella migliore accezione del termine, con l’occhio, quello del regista esordiente Michael Gracey, a quello spettacolo assoluto che era Moulin Rogue!, con cui Baz Luhrmann ha cambiato le regole del musical cinematografico moderno.
La pellicola è ispirata all’immaginario e alla visionarietà del protagonista: nella New York di metà Ottocento Phineas Taylor Barnum, figlio di un sarto, sogna il riscatto e inventa il circo moderno fatto di animali, atleti e freak, sfidando le classi e le convenzioni sociali. Ci sono scenografie maestose e costumi sfavillanti, ci sono numeri musicali, di quelli che fai fatica a star fermo e seduto, e canzoni, di quelle che ti sorprendi a canticchiare fuori dal cinema. Le hanno scritte Benj Pasek e Justin Paul, i vincitori dell’Oscar per i brani di La La Land e del Tony per Dear Evan Hansen). This Is Me, il pezzo eseguito dalla strepitosa donna barbuta interpretata da Keala Settle, è da applausi ed è stato nominato ai Golden Globes come Best Original Song.
Sabato 28 luglio, invece, sarà proiettato “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino.
È una storia d’amore, ma è anche qualcosa di più: il racconto di una vacanza estiva, la scoperta di un diverso se stesso, il sogno di un mondo accogliente e comprensivo. E la prova di una nuova maturità — impreziosita da 4 candidature agli Oscar, compresa quella per il miglior film — per Guadagnino, che qui abbandona i toni sempre un po’ troppo sottolineati delle sue opere precedenti per una messa in scena più trattenuta e sussurrata, a volte quasi distratta, divagante, ma proprio per questo perfetta nel restituire un’atmosfera prima che una storia. A cui non è estranea la scelta di un cast di attori eccellenti ma per niente star, che non hanno bisogno di dimostrare a ogni scena come sono bravi.
Ambientato nell’estate del 1983, «da qualche parte in Nord Italia» (è la campagna nei pressi di Crema, molto familiare al regista), Chiamami col tuo nome usa lo stratagemma dell’arrivo di un estraneo, il ricercatore universitario americano Oliver (Armie Hammer), all’interno di una comunità rilassata e vacanziera non per accendere tensioni o conflitti ma piuttosto per offrire a ognuno degli altri protagonisti l’occasione per scoprire o rivelare qualcosa di sé.
Domenica 29 luglio, la rassegna rende omaggio a Vittorio Taviani, recentemente scomparso, con la proiezione del film “Una questione privata”, ultima opera diretta assieme al fratello Paolo, tratta dal romanzo omonimo di Beppe Fenoglio. E Con Fenoglio siamo già nell’allegoria della Storia. Siamo nel campo di gioco dei Taviani. Un orizzonte che ricomprende il realismo nel teatrale, più sconnesso che mitico stavolta, sempre e comunque al di là della fanghiglia ideologica.
L’avventura di Milton, un Luca Marinelli allucinato e intenso, è l’eterna avventura umana, in uno scenario fuori dallo Spazio (i Taviani utilizzano le Langhe originarie del romanzo in funzione chiaramente allegorica) e dal Tempo (Memoria, Sogno e Presente si alternano senza soluzione di continuità lungo lo stesso asse cronologico). La disperazione della purezza perduta ma anche l’occasione del pragmatismo. Resistere oltre il concupire di ideali (l’Amore, l’Amicizia, la Lealtà) che annebbiano il cuore e l’intelletto, per ritrovare sufficiente presenza di spirito che il momento richiede. Riconoscersi uomini d’azione prima che di lettere.
Il film è la storia di Milton, ragazzo timido, introverso, appassionato di letteratura inglese. Giorgio, bello e intraprendente, è al contempo il suo opposto e il suo migliore amico. Entrambi sono invaghiti di Fulvia, sfollata da Torino ad Alba, che si diverte a civettare con entrambi: legge Cime Tempestose con Milton, balla con Giorgio. Ma è il ’43 e la guerra impone di prendere una parte nella Storia. Milton e Giorgio diventano partigiani in brigate differenti. Un giorno, nei pressi della vecchia casa di Fulvia, Milton incontra per caso la governante della ragazza, che gli instilla un dubbio feroce: è possibile che Giorgio abbia avuto una storia con Fulvia? Questo è il punto di svolta. Da qui in poi non c’è più nulla nella mente di Milton – niente più guerra né lotta partigiana, niente più idee né ideali, niente più Storia – ma solo un’unica ossessione pulsante: trovare Giorgio e chiedergli se è vero.
Non è tanto nella decisione di inserire scene non presenti nel libro (l’incontro coi genitori, la bambina stesa accanto ai cadaveri dei famigliari fucilati), quanto nella volontà di perseguire narrativamente fino in fondo la follia di Milton che i Taviani operano lo scarto più significativo rispetto a Fenoglio, tradendolo nella forma per non tradirne lo spirito, sublimandolo e condensandolo per affermare nella pratica la distinzione fondamentale fra cinema e letteratura. La coltre di nebbia che per l’intera durata del film ammanta luoghi e corpi spoglia la narrazione di ogni connotazione che non sia strettamente ‘privata’: cancella la lingua forte e vivida dello scrittore piemontese, smarrisce la percezione dell’universo partigiano e dei monti sui quali conducevano la lotta. Il campo di battaglia diventa una terra senza specificazione geografica. Il campo di battaglia è la mente di Milton, la sua ‘questione privata’ l’unica lotta rimasta.
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