Fino al 6 settembre 2015
from 4 pm to 10 pm; Mondays closed
Mostre
Il Palazzo del Podestà ospita nella Sala civica una mostra di Pasquale Martini - artista poliedrico e immaginifico che spazia dalla pittura alla scultura utilizzando materiali di scarto, colle e resine. Negli ultimi anni la sua ricerca si è incentrata sul rapporto tra esseri umani e animali, sottolineandone analogie e vicinanza di confini.
La sua ultima produzione si avvale del supporto fotografico di dimensioni e supporti variabili pur non evidenziando preziosismi tecnici. La fotografia nel caso di Martini ha un esito narrativo immediato e spesso l’artista stesso compare nella sequenza del racconto per immagini.
La mostra di Rimini è un ritorno dopo la partecipazione alla collettiva Museo e territorio del 1984 e presenta fotografie realizzate nel corso degli ultimi vent’anni.
Pasquale Martini è nato a Massalombarda nel 1961. Si è diplomato all’Istituto d’arte per il mosaico Gino Severini, Ravenna e all’Accademia di Belle Arti di Ravenna.
Principali mostre personali:
1987 Centro culturale Antonicelli, Torino, No Wall, Bologna. A cui seguono tra le altre nel 1990 una personale alla Pinacoteca Comunale di Ravenna, Loggetta Lombardesca, nel 1996 “I nuovi autoritratti” Feltrinelli, Milano, con Sylvano Bussotti, Nel 2003 personale alla Galleria d’arte moderna di Bologna a cura di Peter Weyermair, nel 2006 Casa Strozzi, Arquà Petrarca.
Ha realizzato e pubblicato sei progetti video e nove cataloghi/libri dai titoli surreali (Sanguisughe ribollite, Il giullare della gravità, Oh Fujiyama, Mecenate macinato, ecc.)
My name is Pasquale di Danilo Montanari
Fu Pasquale, alcuni anni fa, a parlarmi di Emanuel Carnevali. Pasquale è un abile e spesso indiscreto frequentatore di case altrui, e in una delle sue mai annunciate visite serali aveva visto su un comodino il libro che Adelphi aveva dedicato allo sventurato scrittore nato a Bologna nel 1897 ed emigrato o meglio fuggito appena sedicenne negli Stati Uniti. Pasquale allora non seppe dirmi molto di più, come frequentemente gli capita aveva ben presto smarrito tra le sue riserve di carta il libro che si era fatto prestare e che non poté restituire. Solo molti anni dopo mi sono imbattuto nello scrittore per via di un titolo curioso, “Racconti di un uomo che ha fretta”, pubblicato da Fazi. E’ così che è cominciato il mio viaggio carnevaliano, acquistando e leggendo tutto il trovabile e anche il quasi introvabile come “The autobiography of Emanuel Carnevali” curata da Kay Boyle. Strada facendo mi sono convinto che la comprensione del caso Carnevali mi avrebbe aiutato a capire qualcosa di più della vicenda artistica di Pasquale Martini.
Carnevali arrivò nella New York dei primi anni del Novecento senza sapere una parola di inglese, imparando la lingua leggendo le insegne pubblicitarie e senza una vera formazione culturale, ma questo non gli impedì di essere notato da quelli che sarebbero stati i maggiori scrittori americani dell’epoca, da Ezra Pound a William Carlos Williams, e di essere accettato come uno dei loro. Di Carnevali colpiva la straordinaria capacità inventiva, l’originalità linguistica, l’innovazione nella scrittura. L’avventura americana di Carnevali terminò precocemente così come era cominciata, appena venticinquenne fu colpito da una grave forma di meningite e fu costretto a rientrare in Italia dove trascorse il resto della sua tormentata esistenza a Villa Mazzacurati, a Bazzano nel bolognese, un istituto per malati di mente.
Carnevali scriveva in inglese, lingua che non padroneggiava con facilità, ma nonostante questo o forse proprio per questo raggiunse livelli formali e stilistici riconosciuti già dai suoi compagni d’avventura letteraria. Nello stesso modo Pasquale è un artista atipico, imprevedibile, non classificabile, eppure parte integrante del paesaggio dell’arte contemporanea italiana dove si aggira con disinvoltura quasi leggendaria ormai da qualche decennio. Come Carnevali suscita immediati entusiasmi o altrettanto rapidi allontanamenti, si mette continuamente in gioco trattando (dal mio punto di vista giustamente) allo stesso modo una personale alla galleria d’Arte Moderna di Bologna o una collettiva in una pizzeria di Lido Adriano, perché l’occasione non è mai ripetibile e non c’è altro metro di soppesare le cose se non l’ hic et nunc presto dimenticato e sostituito da un altro qui, da un altro adesso.
Una natura poetica
Chi conosce il lavoro di Pasquale Martini sa valutarne l’ormai lungo percorso, documentato d’altra parte da decine di libri, quasi sempre autoprodotti, a volte piratando il marchio dell’editore, come è successo a me. E’ un percorso non lineare, piuttosto una serie di esplosioni a macchia di leopardo, con salti indietro e fughe laterali, solo raramente in avanti, senza nulla concedere alla prevedibilità.
C’è però una certezza ormai nell’opera di Pasquale, per quanto abbia dimostrato di sapere padroneggiare la pittura e soprattutto la scultura con alcuni lavori davvero felici, è solo nella fotografia che il suo talento espressivo trova continuità e perfino un certo rigore intellettuale. Alcuni suoi fotogrammi dei primi anni novanta, stampati in grande formato, potevano sembrare una scommessa. Eppure oggi, a oltre vent’anni di distanza quelle belle e sapienti immagini in bianco nero, come i grandi sacchi di sabbia utilizzati contro l’erosione marina, accatastati uno sull’altro come esausti corpi di balena, mantengono intatta la loro forza, tutta la loro natura poetica, quasi un racconto che concede ad ogni lettura un diverso finale a sorpresa.
E in fin dei conti anche il soggetto preferito da Pasquale negli ultimi anni, il maiale, ci torna nelle sue immagini con una gentilezza, una leggerezza inattesa, a volte più cariche di umanità di quanto gli uomini stessi ormai siano capaci, come se una parte della nostra anima ci avesse abbandonato per sempre e nel suo volo avesse trovato accoglienza proprio nell’inconsapevole animale.
L’ossessione delle parole
Pasquale sta scrivendo la sua autobiografia? Credo sia questa la sua vera opera, al di là delle migliaia di foto, dei pacchi di disegni e carte variamente tormentate, delle centinaia di sculture costruite con i materiali recuperati nel suo, chiamiamolo così, giardino. La vera ossessione di Pasquale sta nelle parole, nei titoli sgraziatamente assurdi e sgrammaticati (per atteggiamento fastidioso, come nei primi anni della sua presenza scenica quando girava con le tasche piene di mortaretti pronti all’uso nelle situazioni meno indicate, ma non dimentichiamo che Pasquale è tutt’altro che sprovveduto, ha studiato all’Istituto d’arte e all’Accademia, dove pure ha insegnato). E questa è un’altra assonanza con Carnevali, attratto dalle scomposizioni della lingua, da una sorta di decostruttivismo della parola disorientante che manteneva sempre una tensione viva, apriva lacerazioni, improvvise folgorazioni e lampi di luce.
Anni fa chiesi a Pasquale di scrivermi su un rotolo di carta, una sorta di papiro, i titoli delle sue opere in sequenza, cosa che egli fece. Volevo farne una edizione limitata che prima o poi mi deciderò a realizzare. Ne uscì una sorprendente sequenza musicale, finalmente si capiva che i titoli di Pasquale sono (non solo) il frutto di un intelletto che non ha bisogno di supporti esterni per raggiungere stati di alterazione, che per una chimica felice sprigiona parole come un’eruzione vulcanica, e che queste parole seguono se non un progetto una poetica, una compiutezza artistica che mantiene nel tempo una tensione costante.
E forse proprio la scrittura, quelle lettere che scrive con ossessione e con visibile compiacimento, sono l’aspetto più interessante del lavoro artistico di Pasquale più recente. Un uso del linguaggio davvero immaginifico, articolato, carico di improbabili neologismi, che stride con la semplificazione e la piattezza dominante.
Qual è il segreto che sottende questa felice condizione, dove nasce la sorgente di idee che alimenta questa sorta di fiume carsico che scompare e riappare nei luoghi più imprevedibili? La prima volta che incontrai Pasquale, credo trent’anni fa, fu in un parcheggio. Senza tanti preamboli mi propose di fare un libro (questa caratteristica gli è rimasta, una sorta di impudenza che a volte, solo a volte, coglie nel segno) poi subito divagò parlando d’altro e quando ci salutammo fece esplodere un petardo, divertendosi come un matto. Il dubbio rimane. E’ questa giocosità infantile, che perdura oggi che si ha superato i cinquant’anni, la cifra di Pasquale, quello che lo rende unico e nella quale ognuno ritrova una parte della propria fanciullezza, non ingenuità, ma genuinità. Perché è certo che ci sarà una prossima volta e un’altra ancora. Il gioco continua, senza regole e con protagonisti sempre nuovi.